giovedì 25 gennaio 2007

studi su stereotipi e metafore culturali

Nel campo degli studi interculturali la figura retorica della metafora è estremamente usata. Il motivo è semplice: la metafora ha una potenza comunicativa ed evocativa notevole. Tuttavia essa è una analogia non la descrizione del fenomeno. Non è di questo parere Martin Gannon[1] che tenta nella sua opera di distinguere tra metafora e stereotipo non dando a quest’ultimo una accezione completamente negativa. Gannon basandosi su vari studi tra cui anche quelli di Hofstede utilizza difatti la metafora per descrivere diciassette culture. Alcuni esempi: l’opera lirica per l’Italia, la Sinfonia per la Germania, la corrida per la Spagna, il Football per gli USA, i Kibbutz per Israele, il merletto per il Belgio, e così via. Sulla scientificità di tale metodo molte critiche sono state mosse. Seppur l’intento dell’autore sia chiaro: quello di rimarcare le differenze senza volontà di giudizio, il risultato è discutibile per una serie di motivi. Prima di tutto le culture nazionali al loro interno non sono omogenee piuttosto hanno molti tratti omogenei. Utilizzare un’unica metafora nazionale ad esempio rispettivamente per gli italiani, i tedeschi e i belgi senza tenere conto delle profonde differenze che esistono tra sud e nord in questi paesi (nel caso del Belgio anche di lingua) appare abbastanza approssimativo come metodo di indagine. Lo stesso Gannon durante il suo lavoro, consapevole evidentemente di tale limite, ha sottoposto le sue metafore culturali nazionali all’esame di nativi e residenti stranieri di lungo corso. L’autore stesso confessa che non sempre c’è stato accordo tra lui e gli altri soggetti giudicanti sull’idoneità della metafora. Il suo intento dichiarato, con questo lavoro, era quello di nobilitare in un certo senso lo stereotipo, capace a suo dire di evidenziare i moduli di comportamento principale di ogni nazione in esame. A nostro avviso tuttavia in molte metafore di Gannon il confine con lo stereotipo (negativo) appare labile. Questo ci da spunto per affermare di contro che lo stereotipo, anche nelle migliori intenzioni non è adatto come strumento per chi voglia approfondire le dinamiche della comunicazione interculturale. Il difetto maggiore dello stereotipo (al di là dei giudizi etico e morali personali) è che semplifica eccessivamente una realtà come quella della cultura nazionale che per la sua complessità è difficilmente riducibile ai minimi termini. Al contempo lo stereotipo nella sua accezione di pre-giudizio sull’altro può minare seriamente l’efficacia della comunicazione interculturale. Del resto in un rapporto commerciale utilizzare le metafore di Gannon è di ben poco aiuto. Un ipotetico manager giapponese potrebbe avere trascorso dieci anni di studi negli Stati Uniti, avere una consorte spagnola, vivere da sei anni in Libano e lavorare per una multinazionale svedese. L’esempio è meno assurdo di quanto si possa credere e dimostra che lo stereotipo non assolve sufficientemente nemmeno a quella funzione di “introduzione” alle altre culture. Gannon commette lo stesso errore dei vari vademecum soprattutto in lingua inglese presenti sul web. Sorta di guide tascabili del manager anglosassone in tutti i paesi del mondo, prescrivono quello che è polite o unpolite[2] in quel paese. Per conoscere una cultura è molto meglio a nostro avviso esplorare i siti web, guardare televisioni e film e leggere i libri di quel paese. Tutti strumenti che daranno conto della poliedricità e della complessità di una società. Le guide più o meno tascabili sono di poco aiuto, semplificano eccessivamente e forniscono spunto a quelle incomprensioni che sono tipiche della comunicazione interculturale.

[1] Gannon, M., Global-mente, metafore per capire 17 paesi, Milano 1997.

[2] educato o maleducato

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